Matteo Messina Denaro è morto lasciando come ultima volontà il rifiuto di "ogni celebrazione religiosa perché fatta da uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato". Ma, come accade con tutti i boss, le esequie religiose sarebbero state negate comunque dal questore di Trapani. E inoltre pende sempre sui mafiosi la scomunica della Chiesa. MMD riconosceva solo la propria autorità e negava quella della Chiesa quanto quella dello Stato. "Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie… Rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia", scriveva in un pizzino dieci anni fa, quando ancora non aveva scoperto la malattia che l’avrebbe portato alla morte.
Lo spartiacque, per Messina Denaro e per la mafia siciliana, è il 1993. Cioè proprio quando il boss di Castelvetrano iniziò la latitanza. Lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento il "grido del cuore" che suonava già come scomunica: "Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita, io dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!". Lo stesso anno in cui però, il 15 settembre, il martirio di don Pino Puglisi certificò che anche nella Chiesa la mafia vedeva ormai un nemico. E infatti, secondo Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano, le stesse stragi romane del luglio 1993 – San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro – "erano anche una sfida alla Chiesa e alla sua capacità di orientare la cultura antimafia del Paese". Matteo Messina Denaro era uno dei mandanti.