giovedì 31 luglio 2014

Il Terranova a sei zampe

Dice che l'Eni non andrà via da Gela. E non è una minaccia, anzi. Premetto che non capisco molto di politica industriale né di questioni sindacali, ma il caos delle ultime settimane nella sesta città siciliana – quella che da Federico II fino al fascismo si chiamò Terranova – mi ha inevitabilmente fatto riflettere. Dunque, lo stabilimento di Gela è tra i meno produttivi del gruppo del "cane a sei zampe". Ma la storia, in particolare quella recentissima, del petrolio in Sicilia porta con sé tante contraddizioni. Che non sono solo siciliane, naturalmente.
Se è vero che Gela rende meno di altri petrolchimici e di conseguenza costa di più, ci sono 970 persone che rischiano il posto di lavoro. In una terra in cui le relazioni industriali, sindacali e politiche sono state improntate all'assistenzialismo e allo sfruttamento (con responsabilità da entrambe le parti, chiaro), so che mi si potrebbe rispondere "è il mercato, bellezza". Capisco anche certi delicati equilibri politici, ma non mi spiego l'interesse un po' intermittente di Saro Crocetta, ex sindaco di Gela, (ex) comunista, presidente della Regione e perito chimico ex impiegato Eni nella sua città.
In ogni caso, la tutela di quei lavoratori è fondamentale. Ecco perché.
Pozzi di petrolio a Gela. Foto del 1995,
ma sembra di trent'anni prima...
Ricatto occupazionale. Si chiama così. Hanno costruito pozzi e raffinerie, dato lavoro a migliaia di persone (quasi "costrette" ad accettarli, quei lavori: avete presente Taranto?), portato un'effimera ricchezza, cioè illusioni di benessere. Ma "benessere" si fa per dire: in cambio del lavoro, salute e ambiente venivano in secondo piano. Hanno distrutto golfi bellissimi, in Sicilia, per farci le raffinerie. Ora l'Eni promette investimenti per 2 miliardi, la riconversione dell'impianto e la conferma di 790 lavoratori su 970. E gli altri? Pare che «verrà trovata una soluzione all'interno del gruppo».
"All'interno del gruppo", ecco. Ma non c'è solo quello, in Sicilia. Gela è in crisi, eppure ha una capacità di raffinazione di 5,9 tonnellate annue, non altissima ma neanche bassissima. Piuttosto, le altre raffinerie siciliane, che appunto non sono del "gruppo", sono tra le poche italiane di taglia internazionale, mentre molte altre sono diventate depositi di prodotti raffinati altrove (era questo che volevano per Gela, proprio mentre si autorizzano trivellazioni e si danno licenze per prospezioni offshore?). La raffineria Mediterranea di Milazzo, la garibaldina Milazzo, la porta sulle Eolie, luogo omerico, è partecipata a metà da Eni e Q8, con le sue 10,3 tonnellate. A Priolo (Siracusa) la Erg ha ceduto il passo ai russi di Lukoil e la vecchia Isab raffina 18,4 tonnellate. Augusta, sempre nel siracusano, raffina 9,9 tonnellate: è della ExxonMobil (Esso).
Totale Sicilia: 43,9 tonnellate annue di capacità di raffinazione del greggio. Totale Italia: 95,5 tonnellate. Il 46%. Mi rendo conto, sono numeri grezzi, non raffinati.

martedì 15 luglio 2014

Non vedo L'Ora

2008: direttore Concita De Gregorio,
pubblicità di Oliviero Toscani
Alcuni audaci tenevano in tasca l'Unità. Qualcuno invece era extra-parlamentare, quindi pure il giornale doveva esserlo: il manifesto poteva andar bene. Lotta Continua, poi... Ma i partiti crescono e cambiano, e anche gli audaci sentono il peso dell'età e delle trasformazioni, politiche e ideologiche.
Così chi continuava a portare in tasca l'Unità, restava "fedele alla linea". Anche quando la linea stava cambiando. Altri, invece, non perdevano l'audacia e sceglievano la linea della Liberazione. O della Rinascita, perché no?
La crisi profonda, cronica, dei giornali della sinistra italiana va al di là delle questioni economiche. Sembra un altro caso di tafazzismo. Dalle parti del (fu) Pci era, anzi è, così. Ma anche altrove, nel variegato e variopinto (tonalità di rossi più o meno accesi e/o sbiaditi) mondo della sinistra. Vedi l'Avanti!, per esempio: senza articolo era quello socialista di una volta, con l'articolo davanti era roba di De Gregorio e Lavitola. Ma ora la crisi ha colpito anche Europa, cioè il versante "bianco" del centrosinistra, l'ex giornale della Margherita e organo ufficiale del Pd (più o meno insieme all'Unità). Ecco: come farsi un giornale e non saperlo gestire. In pratica tutti i giornali di sinistra sembrano destinati a finire maluccio. E se per salvare l'Unità si fanno avanti Daniela Santanchè e Paola Ferrari...
1958: la mafia bombardava
(alcun)i giornali
Chissà se Matteo Renzi farà qualcosa per i due giornali del suo partito, o si limiterà a decretarne la fusione. Il presidente del Consiglio è giovane. Probabilmente alcuni di quei giornali non li ha mai letti, per ragioni anagrafiche e "culturali". Tra i tanti quotidiani de sinistra che hanno appeso il piombo al chiodo, ce n'è uno siciliano, molto importante. Chiudeva in un periodo che Renzi dovrebbe ricordare. Lui dice spesso di appartenere alla generazione cresciuta con la strage di Capaci (io sono più giovane di lui, ma anche io sono cresciuto così...). Quindi del 23 maggio 1992 ricorderà tutto. Chissà se sa che esattamente due settimane prima, l'8 maggio, finiva l'epoca gloriosa de L'Ora di Palermo. Si congedò con un grande "Arrivederci" in prima pagina; salutava perché il Partito (sì, quel partito) aveva chiuso i cordoni della borsa. Niente più soldi ai compagni siciliani. Un po' come era successo a Roma con Paese Sera.
L'Ora, anzi "il l'Ora", come chiedevano i palermitani in edicola, nacque nel 1900 come Corriere politico quotidiano della Sicilia, fondato dalla famiglia Florio. Sempre progressista, tranne la forzata parentesi del Ventennio fascista. Grandi direttori, soprattutto durante "l'altro ventennio", quello del mitico Vittorio Nisticò. E poi firme pazzesche, compresi i due premi Nobel siciliani, Pirandello e Quasimodo; Guttuso, Marinetti il futurista, Verga, Rosso di San Secondo, Capuana, Matilde Serao, Consolo, Danilo Dolci e tanti altri, in una specie di antologia di letteratura. Letizia Battaglia faceva le foto. C'erano veri giornalisti, quelli della "palestra" dell'Ora, una scuola concreta e di prim'ordine (molti di loro sono diventati ormai mainstream, com'è successo al manifesto: qualcuno era comunista, avrebbe detto Gaber...). Un giornale che vanta il triste primato di tre giornalisti uccisi dalla mafia (sugli otto in totale fatti fuori da Cosa Nostra): Cosimo Cristina, Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato, ammazzati perché cercavano la verità. Nel 1958 la mafia buttò anche una bomba in tipografia.
Perché chiuse L'Ora? Per soldi, come rischiano di dover chiudere i due organi del Pd. Ma non solo per quello. La fine del glorioso quotidiano palermitano è stata soprattutto la certificazione di un fallimento, anche politico. La colpa del Pci fu quella di non seguire l'ideale dei Florio: contribuire al riscatto sociale ed economico della Sicilia. L'errore, politico e culturale, è stato di credere che solo il Nord potesse salvare il Sud, il Sud caotico e corrotto. Stiamo aspettando. Nel frattempo la sinistra chiuderà altri giornali.

mercoledì 9 luglio 2014

A tavola con Montalbano

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Mi piacerebbe sedermi a tavola con il commissario Montalbano. Magari proprio con l'originale di Camilleri, non solo con il suo omologo televisivo (peraltro simpatico, ho l'autografo che Zingaretti mi fece durante una pausa delle riprese al duomo di San Giorgio a Modica: si trattava di Tocco d'artista). Nell'inserto "Il settimanale" del Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno) di oggi, sono contento siano state pubblicate due pagine su cui mi sono divertito a lavorare. Il tema è appunto " a tavola con Montalbano". Non ho scritto nulla di nuovo, che i fan di Camilleri e del commissario non sappiano già, ma mi fa piacere averlo potuto fare. E ri-scoprire, spulciando le pagine dei romanzi Sellerio e i fotogrammi della fiction, che l'amore di Montalbano (e naturalmente di Camilleri) per il cibo non è solo un elemento di colore, ma una caratteristica che secondo me accomuna molto noi siciliani. Davvero il cibo è cultura, perché rappresenta le cosiddette "radici", racconta da dove veniamo, le stratificazioni della nostra storia, e persino della nostra lingua.
Un arancino non è solo riso al ragù. Un cannolo non è solo cialda ripiena di ricotta. La caponata non è solo un ricco piatto di verdure. C'è tutta la Sicilia lì dentro. E lo ha capito pure Zingaretti...
Buona lettura. E anche buon appetito.

venerdì 4 luglio 2014

Minchia signor Faletti

È morto Giorgio Faletti. Quando un personaggio noto, soprattutto del mondo dello spettacolo, esce di scena, solitamente le reazioni "popolari" sono due: o ci si fa prendere dallo sconforto 2.0, quella squallida corsa al necrologio da social network che porta a esprimere dolore a buon mercato per gente sconosciuta, oppure si ostenta, al contrario, indifferenza (sempre con l'ausilio ormai insostituibile dei social). Io mi tengo equidistante.
Non ho mai letto un libro di Faletti, a partire dal megasuccesso Io uccido (ma è "colpa" mia che non sopporto i bestseller), né ho grande nostalgia della comicità caciarona degli anni di Drive In.
Una cosa, però, del piemontese Faletti la ricordo bene, come tanti. Giorgio Faletti è per me, siciliano, quello che vent'anni fa sdoganò sul paludato palco di Sanremo la "nostra" parola per eccellenza. E lo fece raccontando una storia importante, scuotendo un po' anche qualche coscienza. La canzone, più parlata che cantata, era ovviamente Signor tenente, e parlava della vita di merda che fanno certe forze dell'ordine, soprattutto gli agenti di scorta (in quel caso interpretava in prima persona un carabiniere). E infatti, anche se la cantò nel 1994, era evidente a tutti il richiamo alla stagione devastante delle bombe del 1992. Capaci e via D'Amelio condensate sostanzialmente in un vigoroso "minchia". Così sicilianamente espressivo. Quello che ricordo, però, soprattutto adesso con il senno di poi, è che allora per tanti quella canzone solo apparentemente volgare, che vinse il premio della critica e arrivò seconda a Sanremo (per la cronaca e la storia, vinse Aleandro Baldi con Passerà), faceva sorridere proprio per quel "minchia". Così come l'anno prima il Vaffanculo di Marco Masini. E invece no, per me, che le stragi del '92 le ricordavo ancora troppo bene, non era solo una parolaccia fine a se stessa. Le parolacce erano e sono ben altre.