venerdì 4 luglio 2014

Minchia signor Faletti

È morto Giorgio Faletti. Quando un personaggio noto, soprattutto del mondo dello spettacolo, esce di scena, solitamente le reazioni "popolari" sono due: o ci si fa prendere dallo sconforto 2.0, quella squallida corsa al necrologio da social network che porta a esprimere dolore a buon mercato per gente sconosciuta, oppure si ostenta, al contrario, indifferenza (sempre con l'ausilio ormai insostituibile dei social). Io mi tengo equidistante.
Non ho mai letto un libro di Faletti, a partire dal megasuccesso Io uccido (ma è "colpa" mia che non sopporto i bestseller), né ho grande nostalgia della comicità caciarona degli anni di Drive In.
Una cosa, però, del piemontese Faletti la ricordo bene, come tanti. Giorgio Faletti è per me, siciliano, quello che vent'anni fa sdoganò sul paludato palco di Sanremo la "nostra" parola per eccellenza. E lo fece raccontando una storia importante, scuotendo un po' anche qualche coscienza. La canzone, più parlata che cantata, era ovviamente Signor tenente, e parlava della vita di merda che fanno certe forze dell'ordine, soprattutto gli agenti di scorta (in quel caso interpretava in prima persona un carabiniere). E infatti, anche se la cantò nel 1994, era evidente a tutti il richiamo alla stagione devastante delle bombe del 1992. Capaci e via D'Amelio condensate sostanzialmente in un vigoroso "minchia". Così sicilianamente espressivo. Quello che ricordo, però, soprattutto adesso con il senno di poi, è che allora per tanti quella canzone solo apparentemente volgare, che vinse il premio della critica e arrivò seconda a Sanremo (per la cronaca e la storia, vinse Aleandro Baldi con Passerà), faceva sorridere proprio per quel "minchia". Così come l'anno prima il Vaffanculo di Marco Masini. E invece no, per me, che le stragi del '92 le ricordavo ancora troppo bene, non era solo una parolaccia fine a se stessa. Le parolacce erano e sono ben altre.

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