mercoledì 27 gennaio 2016

Il nostro Kunsertu


Mokarta è una canzone meravigliosa. La cantavano i Kunsertu, gruppo siciliano di culto, pioniere italiano tra Ottanta e Novanta della world music ("100% etno-rock"). Mokarta è una serenata bellissima, scritta nel 1985, che forse prendeva pure spunto dalla celebre Rosa fresca aulentissima di Cielo d'Alcamo (XIII secolo, quando il siciliano era già lingua). Ho scoperto solo ieri, per caso, che Sergio Lo Giudice è stato uno dei sassofonisti dei Kunsertu.
Cercavo Lo Giudice per un'intervista, ma per ben altre ragioni. Quasi 55 anni, senatore della minoranza Pd, già consigliere comunale a Bologna, presidente onorario dell'Arcigay, sposato dal 2011 e padre di un bimbo nato nel 2014 da maternità surrogata. Con lui ho fatto una lunga chiacchierata sul QN sul tema caldo del momento, il dibattito sulle unioni civili (proprio nel giorno in cui il Consiglio d'Europa ha chiesto all'Italia di riconoscere legalmente le coppie gay).
Sergio Lo Giudice è nato a Messina ma ha lasciato la Sicilia poco più che ventenne. Gli ho pure chiesto che impressione ha ora dell'Isola dal punto di vista dei diritti gay. «È molto cambiata rispetto ad allora, anche se in giro restano molti pregiudizi. Ma penso a iniziative come il Gay Pride di Palermo e vedo che c'è una grande capacità di accoglienza, quell'umanità tipica dei siciliani, oltre i maschilismi. I pregiudizi cadono quando c'è un confronto diretto con le persone».
Sergio Lo Giudice con il marito e il figlio
Matrimonio in Norvegia e un figlio da madre surrogata negli Stati Uniti. Sergio Lo Giudice, 54 anni, senatore Pd, portavoce dell’area di minoranza Retedem e presidente onorario dell’Arcigay, è stato il primo uomo politico a diventare padre gay. Dopo aver sposato nel 2011 a Oslo il suo compagno Michele, nel 2014 è nato Luca.
Senatore, su questo giornale la professoressa Eleonora Porcu, luminare della fecondazione assistita, ha definito la pratica dell’utero in affitto “una schiavitù per le donne”. Come risponde?
«Innanzitutto preferisco parlare di ‘gestazione per altri’, come si dovrebbe dire correttamente. Altri luminari come Carlo Flamigni la pensano diversamente dalla Porcu. Ma condivido pienamente tutte le obiezioni sullo sfruttamento di donne afflitte dal bisogno, dalla fame, o persino dal racket, nei Paesi poveri come India e Thailandia, dove le coppie gay non hanno comunque accesso a queste pratiche. A volte sono gli stessi mariti a costringerle».
Questo nei Paesi poveri. E negli Stati Uniti, come nel suo caso?
«Lì, come anche in Canada, ci sono legislazioni avanzate. Le donne devono essere economicamente sufficienti e avere avuto già dei figli».
Però non è una pratica per tutti. Andare dall’altra parte dell’oceano costa...
«In effetti no, ce la fanno solo le persone che possono permetterselo. Però sarebbe ora di aprire un ragionamento, un confronto serio e trasparente: altri Paesi europei, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, anche la Grecia, consentono questa pratica».
La professoressa Porcu parla anche del rapporto madre-figlio. Rapporto “fisico, carnale”, lo ha definito. In un caso del genere viene a mancare?
«Non è come la legge 40 sulla fecondazione artificiale che prevede l’anonimato dei donatori. Noi siamo invece in costante collegamento con la madre surrogata americana. Le mandiamo le nostre foto di famiglia, lei le sue. I bambini delle famiglie arcobaleno cresceranno avendone piena consapevolezza. Le coppie gay sono assolutamente trasparenti su questo punto. E non potremmo fare altrimenti».
Le coppie etero non sono trasparenti?
«Il 95% delle coppie che accedono alla maternità surrogata sono eterosessuali. Ma perlopiù non lo dicono. Il punto è un altro».
Quale?
«Si parla dell’utero in affitto, termine orribile, solo per esprimere un pregiudizio contro la genitorialità omosessuale. È un dibattito strumentale: questa tecnica è vietata in Italia né tantomeno la sdoganerebbe il ddl Cirinnà».
Il cardinale Bagnasco però ha detto che “i figli non sono un diritto”.
«Bene, sono d’accordo. Non esiste alcun diritto ad avere figli. Ma esiste quello di avere tutti le stesse opportunità. E per i bambini di avere una famiglia. Non possono avere diritti diversi solo per una decisione degli adulti. D’altra parte solo nel 2014 siamo finalmente arrivati a una legge che cancella la distinzione tra figli naturali e legittimi...».


venerdì 22 gennaio 2016

Giusi de Beauvoir

Giusi Nicolini è una "leonessa". Lo dicono e scrivono in tanti. Una bella figura di combattente civile per i diritti e la dignità, esponente di una politica che dovrebbe tornare a farsi qualche domanda, oltre a millantare presunte risposte. Da quando è stata eletta, il sindaco di Lampedusa è anche un pungolo alla sedicente sinistra italiana. E infatti io sono ancora qui ad applaudirla per aver rifiutato nel 2014 la candidatura sicura alle Europee con il Pd.
Due settimane fa a Giusi Nicolini sono stati riconosciuti ancora una volta i suoi meriti, stavolta a Parigi. Ha ottenuto il Prix Simone de Beauvoir pour la liberté des femmes, arrivato alla sua nona edizione (nel 2013 aveva vinto Malala). L'autorevole giuria l'ha premiata per la sua «azione coraggiosa e pionieristica a favore dei migranti e dei rifugiati» e lei ha, con il consueto piglio da "leonessa", richiamato l'Europa e l'Occidente intero alle proprie responsabilità.
Giusi Nicolini mi piace molto ed è per questo che mi fa molto piacere che l'edizione italiana di Global Voices, la rete internazionale di giornalismo partecipativo, mi abbia contattato per un mio vecchio post sul sindaco di Lampedusa e Linosa. Post citato nell'articolo di Abdoulaye Bah, anche lui gran personaggio: ultrasettantenne di origine guineana, ha lavorato per anni all'Onu, militante radicale, è finito persino in Habemus Papam di Nanni Moretti (faceva il cardinale dello Zambia!). Grazie ad Abdoulaye Bah e a Global Voices. E naturalmente grazie a Giusi Nicolini.

giovedì 14 gennaio 2016

Dateci una leva

Operazione Vespri Siciliani (1992-'98):
l'Esercito insieme alle forze di polizia
nella lotta contro la mafia
Anni fa, ai tempi dell'università, facevo spesso su e giù per l'Italia in treno. Molte volte, soprattutto in coincidenza con periodi festivi, mi è capitato di viaggiare con giovani militari che tornavano nelle loro terre d'origine, anche loro meridionali come me. Molti erano siciliani. Uno dei viaggi più divertenti fu con tre ragazzi nel mio stesso scompartimento, di ritorno in Sicilia in licenza. O ancora quel ragazzo, spaesato e simpatico, che a 19 anni tornava da Trieste al suo paesino in provincia d'Agrigento: almeno 22 ore di treno, mi pare di ricordare, per lui che forse era uscito dalla Sicilia per la prima volta proprio per indossare una divisa. Ma ricordo anche tanti ragazzi e ragazze dalla Campania, molti salernitani.
Un paio di giorni fa, a Roma, il capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale Danilo Errico, ha spiegato a un convegno organizzato dal Centro Studi Internazionali (Cesi) che il 71% degli effettivi dell'Esercito italiano proviene da regioni del Sud, il 19% dal Centro e solo il 10% dal Nord. Anche se tre quarti dei comandi e delle caserme si trovano tutti al Nord e al Centro. Dunque c'è una massiccia emigrazione in divisa, dal Sud. Ed Errico sottolineava infatti che le politiche di reclutamento dovrebbero tener conto maggiormente della «disomogeneità tra la provenienza geografica del personale in servizio e la distribuzione geografica delle infrastrutture militari». Aggiungo che in Sicilia, regione da cui proviene il 15% degli arruolati dell'Esercito (terza dopo Campania con il 28% e Puglia con il 16,7%), verranno messe in vendita sei caserme dalla Difesa, tante quanto quelle del Piemonte, più dell'Emilia-Romagna o della Toscana o del Lazio.
Io non ho fatto il militare e non l'avrei fatto comunque, anche indipendentemente dai rinvii per ragioni di studio. Ma rispetto chi ha scelto di farlo, specialmente se ha l'onestà, come quei ragazzi in treno, di ammettere che oltre a più o meno vaghe "vocazioni" c'è una valutazione di opportunità professionale.

Chi l'ha letto?

Da inizio anno ho già letto un libro per intero e almeno altri due li ho iniziati. Entro la fine di gennaio dovrei arrivare a quattro libri letti, più o meno. E nel frattempo, nelle prime due settimane del 2016, ho visitato una decina tra musei e affini. Non avevo mai creduto che queste cose, per me normalissime fin da quando sono piccolo, fossero così assurde, rare, totalmente disallineate dalla media nazionale. Perché le statistiche dicono che un italiano su cinque non si sia dedicato affatto a "consumi culturali" – cinema compreso – l'anno scorso e che sei connazionali su dieci non abbiano letto (per motivi non professionali né di studio) neanche un libro nei 12 mesi passati. Letto, non comprato, beninteso. Quindi io sono fuori dalla media, dice la statistica, che non sempre è quella del mezzo pollo di Trilussa.
Il problema è che i numeri sono freddi e spietati. E il Sud Italia va peggio della già disastrosa media nazionale. Perché se in Italia si leggono pochissimi libri e giornali (ricordo di aver letto anni fa che i vietnamiti sono più affezionati di noi alla stampa...), nel Meridione si sale fino al 70% di non lettori. Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e infine Sicilia, nella classifica delle regioni che non leggono. Nella mia Isola, la terra dei due premi Nobel, quella del Gattopardo consigliato pure dalla buonanima di David Bowie, la percentuale di persone dai 6 anni in su che non aprono un libro in un anno è precisamente del 68,3 per cento. In generale, nelle regioni meridionali la quota si attesta intorno ai due terzi; meno del 50% nel Nord, per la cronaca.
Io sono un famelico consumatore di cultura e letteratura, quindi non so perché sia così diffuso al contrario il "digiuno" dei miei connazionali. So soltanto che ancora adesso, dopo sette anni, mi ritorna in mente la notizia dell'apertura di due librerie (una si chiamava "L'Araba Fenice") a Gela, città di quasi 80mila abitanti che fino ad allora, 2009, non aveva una vera libreria, ma solo qualche cartoleria. Il sindaco di allora era Rosario Crocetta che compose addirittura dei versi poetici sulla "Resurrezione" di Gela grazie alla cultura. E sempre nel 2009 anche Vittoria, oltre 60mila abitanti, centro ragusano spesso pericolosamente nell'orbita (mafiosa) di Gela, inaugurò la sua prima libreria. E si potrebbe proseguire all'infinito, ricordando anche quante piccole attività aperte sull'onda della scommessa e della speranza abbiano poi dovuto chiudere. Certo, l'obiezione è che i libri si possono pure leggere in biblioteca. Giusto, ma quella di Modica, dopo anni di lavori, non ha ancora una sua sede definitiva e certa, con i testi del Fondo antico conservati a lungo in luoghi inadeguati, a detta della Soprintendenza. E purtroppo, anche quando c'era una sede, i modicani non frequentavano granché le sale polverose della stantia biblioteca cittadina. Ora magari comprano un paio di bestseller l'anno.