domenica 29 aprile 2012

Mauro Barbanera, il pirata che faceva paura ai ladroni

Avevo solo cinque anni e mezzo quando fu ammazzato, non potrei effettivamente ricordarlo. Ma come mi è successo per molte altre vittime della mafia, anche Mauro Rostagno l'ho riscoperto con il tempo. Una storia strana, particolare, piena di ironia. Finita però tragicamente. Ammetto di essermi interessato alla storia di Rostagno soprattutto da quando ho deciso di fare il giornalista. E lui non aveva neppure il tesserino. Dunque mi sono appassionato, se così si può dire, alle storie di quei giornalisti e cronisti ammazzati in Italia dalle mafie e di cui molti si dimenticano facilmente. Io li ricordo e Mauro è uno di questi. Ucciso per di più a Trapani, dove ancora qualche giornalista è minacciato.
Quest'anno il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, insieme all'Associazione Ilaria Alpi, ha dedicato proprio a Rostagno il premio "Una storia ancora da raccontare". Ho partecipato. Ho scritto un pezzo sulla storia di quello strano attivista-sociologo-giornalista. Ho giocato un po' con le parole, a dirla tutta. Sono arrivato secondo.
Un racconto di contrasti, tra il bianco e nero e i colori, tra la luce e il lutto, tra la vita e la morte. Eccolo (è anche qui).
La storia di Mauro Rostagno è una storia di colori. Da raccontare un po’ a colori, un po’ in bianco e nero. È a colori il Rostagno “arancione”, quello che abbraccia le filosofie orientali e il pensiero di Osho. È arancione il Mauro che fonda la comunità Saman. È bianco e nero Mauro, quando il boss di Trapani Mariano Agate lo minaccia pubblicamente: «Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati». La varva, la barba è nera, e Mauro è vestito di bianco. Quasi un’icona: un uomo venuto da lontano a vestire il bianco dell’onestà e della verità in una terra che troppo spesso tra la luce e il lutto, per dirla con Bufalino, sceglie il colore oscuro della morte e del dolore.
I colori, la luce della Sicilia, i simboli, non sono inutili nella storia e nella vita di Mauro Rostagno. Una storia e una vita che diventano siciliane trent’anni fa, ma che in fondo sono siciliane da sempre. Mauro Rostagno non è nato in Sicilia, come Danilo Dolci o Mauro De Mauro. Ma è siciliano nel cuore, “trapanese per scelta”, scelta insolita se nasci a Torino. È siciliana la sua vita, con tutte le complessità che forse solo una vita siciliana può vantare. Sociologo antimafia, come Dolci. Giornalista antimafia, come De Mauro. E ucciso dalla mafia, come De Mauro.
Tutto quello che Rostagno ha fatto prima di diventare “quello con la barba e vestito di bianco” è storia. La “s” è minuscola o maiuscola a piacimento. È la singola storia di un uomo del suo tempo e nel suo tempo, piccola e grande insieme, dunque. La politica, i movimenti, la militanza, la cultura alternativa, la contestazione, il Sessantotto, Trento e la sociologia, Lotta Continua: il Mauro Rostagno giovane è in fondo la biografia di un’intera nazione, di un’intera generazione. La sua vita è il racconto di una società che cambia, anche tra provocazioni, controversie e tensioni. Quella di Rostagno è una delle tante storie minuscole che hanno fatto l’altra Storia, quella maiuscola, grande, italiana.
Prima di Saman, la Sicilia è già entrata nella vita di Mauro. Anzi, è Mauro che entra nella vita e nella quotidianità della Sicilia e comincia già nei primi anni Settanta a rivoltare Palermo e l’Isola, all’università e in politica. Ma è chiaro che con Saman tutto cambia. Da centro di meditazione “arancione” a comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti, un’isola di serenità in un territorio martoriato, dove il dolore è nascosto sotto quel velo nero che non si può squarciare. Ma Rostagno quel velo l’ha strappato e ha provato a far brillare un po’ di bianco e di luce. Lo ha fatto anche da giornalista. E questo dovrebbe insegnare molto a chi vuole fare quel mestiere: non è eroismo, è semplice ricerca della verità. Come De Mauro prima di lui, Rostagno paga con la vita il suo lavoro, la sua missione, le denunce: muore da siciliano, lui che siciliano lo è diventato per adozione. Adozione reciproca, s’intende.
Mauro Rostagno è morto da siciliano, come quei siciliani che cercano la verità e non si fermano alla faccia delle cose, non si accontentano dei colori superficiali. Una passione, il giornalismo, non tanto un lavoro. Anche un modo per dare una seconda occasione ai ragazzi di Saman. Una terapia civile. Dagli schermi di Radio Tele Cine, la Rtc di Trapani, l’uomo con la tunica bianca e la barba nera usava tanti colori. Colorato era il suo “mestiere della parola”. Il boss Agate si sbagliava: non erano “minchiate”, quella era l’ironia con cui Mauro prendeva in giro i potenti. Faceva paura quel sorriso, la veste bianca e la barba lo rendevano un “pirata” molto temuto dai “ladroni”, Rostagno era un giustiziere buono e onesto.
Aveva solo 46 anni, il “pirata”, quando la mafia lo uccise. La mafia, quella trama nera (nera come il lutto) che ha attraversato la Storia – e le storie – d’Italia e della Sicilia. Una trama fatta di morte, depistaggi, connivenze, collusioni, trattative occulte. Appunto un fenomeno nero, oscuro, che si concede un’incursione a colori solo quando vira sul rosso, sul sangue. Il rosso, un colore acceso ma che diventa drammatico, quando sporca la veste bianca di Mauro Rostagno.
C’hanno provato in molti modi, a trovare moventi alternativi, come se fosse sconveniente ammettere che quel 26 settembre 1988 la vita e i colori vivi di Mauro Rostagno finivano sotto i colpi e la violenza della mafia. Ci sono voluti più di vent’anni prima che nel 2009 il boss Vincenzo Virga fosse arrestato come mandante dell’omicidio del sociologo-giornalista torinese per nascita e trapanese per scelta. Un epilogo a tinte solo un poco più chiare. Intanto si è detto di tutto: hanno tirato in ballo l’omicidio Calabresi, le armi in Somalia, Gladio, persino presunti moventi di droga interni a Saman.
Hanno provato a sviare le indagini, creare dubbi, macchiare la reputazione e il ricordo di Mauro Rostagno. Che era vestito di bianco, aveva la barba nera e parlava un linguaggio arcobaleno. Ed è stato macchiato di rosso, colore del sangue e della vergogna, il sangue di Mauro e la vergogna di chi lo ha ucciso e dimenticato. Ma anche il rosso dei melograni in mezzo ai quali riposa, il pirata sorridente che sconfiggeva i ladroni.

giovedì 19 aprile 2012

A lezione da Pio La Torre

«Tutti sanno chi sono Falcone e Borsellino ma nessuno conosce Pio La Torre». Detta da una donna del nord, a me fa un certo effetto. La donna è una professoressa universitaria, bresciana, che insegna a Bologna. Si chiama Stefania Pellegrini ed è docente di Sociologia del diritto e tiene un corso che si chiama "Mafie e antimafia". Ma soprattutto è la persona cui si deve l'istituzione di un master sulla gestione dei beni confiscati alla mafia.
Non è il primo in Italia, ce ne sono altri due a Napoli e Benevento, ma quello che partirà a Bologna a fine novembre avrà la caratteristica unica di formare competenze tecniche nella gestione e nel recupero dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Il master sarà intitolato a Pio La Torre, quello che pochi studenti di quel corso sulla mafia conoscono. A pochi giorni dal trentennale della morte di La Torre, arriva questo omaggio dal nord («È un caso, ma mi piace pensare che sia un segnale», dice la professoressa). Quando ho saputo dell'istituzione di questo master, ho pensato immediatamente a quello che al contrario è successo a Comiso con l'intitolazione dell'aeroporto. Lì Pio La Torre non c'è più. A Bologna, alla facoltà di Giurisprudenza, evidentemente risulta meno scomodo. E allora, oltre ai motivi specifici per cui far nascere al nord – il nord colonizzato dalle mafie ma ancora un po' "ingenuo" – un master del genere, ecco che c'è «un'esigenza di memoria storica». Ricordare Pio e farlo conoscere a chi non ne sa nulla.
La professoressa Pellegrini ricorda di essere stata una delle pochissime persone in Lombardia abbonate ai Siciliani di Pippo Fava, sentendosi pure "rimproverare" dalla gente del sud (con frasi del tipo: «Cosa vuoi saperne tu della mafia?», come se fosse davvero solo "cosa nostra"). In questo master metterà competenze, passione e si farà anche carico di qualche spesa. L'importante è che il corso parta. Sperando che qualcuno in Sicilia capisca il messaggio.

giovedì 12 aprile 2012

La lattina ha l'oro in bocca

La scorsa settimana sono andato a fare un giro (per lavoro) al Mambo, il Museo d'Arte Moderna di Bologna. Dovevo fare una vox populi, immancabile tassello nella "carriera" di un giovane giornalista. Vabbè, ne ho approfittato per visitare le sale del museo, ancora non avevo visto la collezione permanente. Un'opera che mi ha colpito molto (la conoscevo già, ma vederla dal vivo è un'altra cosa) è Coca cola (particolare) di Mario Schifano del 1962. Cinquant'anni fa, e la Coca era già un simbolo. Quella liquida, intendo dire. Il quadro raffigura solo una parte del logo della bibita, ma sono sufficienti la costruzione, l'accoppiata di colori rosso-bianco e un paio di lettere per identificare senza problemi l'oggetto. Che non è solo un oggetto. Un frammento della civiltà consumistica. Un simbolo, appunto.
Ma di cosa è simbolo la Coca-Cola? Di un certo modo di fare impresa. Della globalizzazione. Dell'uniformazione dei costumi e dei consumi. Del capitalismo selvaggio, direbbero alcuni. La fortuna della Coke l'ha sempre fatta, inutile negarlo, la pubblicità. L'azienda di Atlanta ha capito da subito che l'investimento in immagine è fondamentale. E così ecco le campagne planetarie, il battage mediatico in cui la Coca, bibita di svago, viene "venduta" come bevanda familiare, gli spot natalizi eccetera. Questo tam-tam del marketing serve dunque a vendere meglio il prodotto, con risvolti a volte imprevedibili.
Prendiamo la Sicilia. Dal 1976 la Sibeg di Catania, nata nel 1959 da imprenditori già legati alla farmaceutica (ma guarda un po', come il fondatore della multinazionale John Pemberton), è la distributrice della Coca-Cola nell'Isola. Il suo lavoro di diffusione della bevanda, evidentemente, l'ha fatto bene: in un anno i siciliani consumano 20 litri pro-capite, qualche punto percentuale in più della media nazionale. [Sul web circola peraltro un dato pazzesco, 122 bottiglie a testa contro le 119 della media italiana; in pratica una ogni tre giorni. Mah, a me sembra troppo: anche se fossero tutte da 33 cl, comunque farebbero 40 litri!]
Ora la Sibeg viene incontro ai suoi amati consumatori siculi: la Coca-Cola infatti costerà di meno rispetto alle altre regioni d'Italia. Colpa del caldo, spiega Luca Busi, amministratore delegato della società: «Le temperature influiscono sul consumo pro-capite». Fosse solo questo... Lo stesso Busi ammette che c'è altro. «Dipende anche dal fatto che c'è un'organizzazione dedicata alle aspettative dei consumatori siciliani: ad esempio, abbiamo più di 75 promoter che visitano ogni settimana i nostri punti vendita».
La convenienza per le tasche dei siciliani fa parte del "piano anticrisi" presentato dalla Sibeg a Viagrande. Chiarezza sull'etichetta, sia nei supermercati che nelle botteghe alimentari, che Busi chiama "le Zie Marie". Che bello, zia Maria venderà la Coca-Cola a un prezzo più basso. E ancora ribassi nelle confezioni a 2 o a 4 bottiglie, più l'arrivo della lattina piccola da 15 cl. Tanto per dare un'idea del giro d'affari della Sibeg, piano anticrisi a parte, dalla zona industriale etnea partono ogni giorno dai 30 ai 60 autotreni, che raggiungono 32 mila negozi e supermercati in tutta la Sicilia, con un fatturato di 100 milioni di euro.
Altro che la Coca-Cola di Schifano...

venerdì 6 aprile 2012

La Sicilia marcia

L'altroieri ho rimpianto di essere troppo "piccolo". Non ero stato neanche concepito quando a Comiso il 4 aprile 1982, cioè trent'anni fa, quasi centomila persone manifestarono all'aeroporto Magliocco contro l'installazione dei missili americani Cruise. Era una battaglia pacifista, vera e sincera, forse fricchettona, ma non strumentale. Allora si lottava davvero contro la militarizzazione del Mediterraneo, sotto la guida di un martire come Pio La Torre. Sì, d'accordo, era facile allora e forse è ancora più facile adesso bollare quelle manifestazioni e quei sit-in come "anti-americanismo", in pienissimo clima da guerra fredda e di contrapposizione tra blocchi. Quasi scontato dare una patente politica. Epperò non c'erano solo i comunisti. Quella battaglia fu condivisa. Non da tutti, certo, ma marciarono anche movimenti cattolici. E trent'anni dopo a Comiso si sono riuniti i protagonisti di allora e i loro aspiranti eredi. Probabilmente alcune parole d'ordine sono cambiate, come cambiano i tempi. Ma la base è sempre quella, contro la guerra e contro la mafia. D'altra parte il raduno del 4 aprile 1982 fu l'ultimo di Pio La Torre, ucciso 26 giorni dopo. Aveva intuito il legame possibile tra il potere mafioso e il business dei missili.
Le date non sono mai casuali. Il giorno dopo questo anniversario così importante, il segno di un'epoca che non c'è più, arriva la notizia del rinvio a giudizio per il presidente della Regione Raffaele Lombardo. Io non so, e neanche me lo chiedo, dove fosse Lombardo il 4 aprile 1982; so soltanto che il 5 aprile 2012, dopo la decisione del Gip di non accogliere l'archiviazione della Procura e di disporre l'imputazione coatta, il governatore siciliano e il fratello Angelo sono stati rinviati a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Sul reato di concorso c'è un grande dibattito irrisolto e se Lombardo ostenta sicurezza (come sempre, d'altronde), evidentemente sa di potersela cavare. Beninteso, è già gravissimo il voto di scambio. Indipendentemente da come andrà a finire (lui dice che si dimetterà un attimo prima del verdetto del Gup di Catania, comunque), restano un paio di considerazioni. L'introduzione dell'associazione mafiosa nel novero dei reati penali è il capolavoro di Pio La Torre. Articolo 416-bis del codice penale, tanto per ricordarlo. E alcuni tra quelli che si dicono eredi del più grande politico siciliano del dopoguerra, sono oggi gli alleati dello psichiatra di Grammichele.
Trent'anni passano in fretta, altroché.

mercoledì 4 aprile 2012

Per soldi o per Errore?

Con tutto il rispetto e l'affetto (sconfinato) per Fonziu Purtusu, era ovvio che la sua non fosse una candidatura seria. Qualcuno c'ha creduto davvero, evidentemente gli difettava la conoscenza del personaggio. Così i "veri" candidati alla poltrona di sindaco di Agrigento sono sei. Anzi no, cinque. Erano sei fino a questa mattina. Poi Angelo Errore si è ritirato, neanche una settimana dopo aver annunciato l'intenzione di correre. Un forfait sul quale vale la pena ragionare un po'.
Tre sarebbero i motivi della decisione: «Primo, il costo della politica. Non posso rinunciare all'indennità del mio mandato e poi assistere a questo scempio di sperpero di soldi per la campagna elettorale. Secondo, la crisi dei partiti, perché i singoli porteranno ulteriori problemi. Terzo, il ruolo della città, destinata a diventare un segmento povero del B&B». Vado in ordine sparso. Il secondo è di difficile comprensione, non l'ho capito, anche se ho studiato scienze politiche. Il terzo è un cruccio vero di Errore: la colpa è di chi ha tradito il progetto di fare di Agrigento il terzo polo turistico di Sicilia (dopo Taormina e Cefalù), favorendo piuttosto la costruzione di alberghi a Sciacca. Campanilismo turistico, vabbè. Il primo è chiaramente il punto più interessante. Quando si parla di costi della politica, evidentemente, bisogna mettere in conto anche le spese per le campagne elettorali. Errore, con il suo "Movimento Azzurro", non ha troppi soldi da spendere. Lui lascia la campagna elettorale e il movimento – un'associazione ambientalista – lo segue a ruota, sciogliendosi. Non so come intenda farlo, ma Errore insiste sulla partecipazione del suo gruppo alla governance della città. Boh.
Un Errore di gioventù
Così i candidati, in rigoroso ordine alfabetico, rimangono: Giuseppe Arnone, Giampiero Carta, Mariella Lo Bello, Salvatore Pennica e Marco Zambuto. In una città in cui il sindaco uscente, Zambuto, era stato eletto col centrosinistra per passare il giorno dopo dall'altra parte, le schermaglie di Errore non sono forse troppo diverse dalle farse di Fonziu Purtusu.
Ah, dimenticavo. Angelo Errore, 74 anni, deputato regionale della Democrazia Cristiana dal 1981 al 1996, è stato già sindaco di Agrigento. Dal 1976 al 1979. Quando evidentemente candidarsi costava poco.