venerdì 22 dicembre 2023

Alla Corte di Barbera



«Mi hanno chiamato in tanti per farmi i complimenti. Anche il mio storico barbiere qui a Bologna. Già quando diventai giudice costituzionale disse agli altri clienti: "Barbera è talmente bravo che sono sicuro che diventerà giudice della Corte dei Conti..."». Augusto Barbera ride mentre racconta le reazioni alla sua nomina – all’unanimità – a presidente della Corte Costituzionale. Lo fa nel suo studio in pienissimo centro a Bologna, rispondendo alle domande di Agnese Pini, direttrice di Quotidiano Nazionale, nella prima intervista rilasciata dopo la nomina a quinta carica dello Stato.
Ottantacinque anni, siciliano, giudice costituzionale dal 2015, Barbera ci accoglie in uno studio pieno di libri, riviste, pubblicazioni straniere, ma anche oggetti che rivelano curiosità intellettuale e passioni oltre il diritto. Come l’interesse per la medicina («da autodidatta: sono patofobo»). O come la collezione di statuine di Sant’Antonio da Padova davanti ai volumi della rivista Giurisprudenza Costituzionale. «Perché Sant’Antonio? Perché io mi chiamo Augusto Antonio: Augusto lo scelse mio padre, sa, erano gli anni in cui l’Italia pensava all’impero... Antonio invece lo volle mia madre, devotissima».
Che presidente sarà Augusto Barbera? In un clima di contrapposizioni, non si rischia che la Corte venga tirata per la giacchetta, per arruolarvi pro o contro governo?

«Una cosa è certa: se dovesse verificarsi uno scenario del genere deluderò gli uni e gli altri. Da quando sono stato eletto giudice costituzionale, mi impongo una regola: lasciare fuori dal portone della Corte il proprio passato, che nel mio caso appartiene alla politica, visto che sono stato in Parlamento e, per un breve periodo, anche ministro nel governo Ciampi. Tutto questo, compreso il mio ruolo di promotore dei referendum elettorali negli anni Novanta, appartiene a un’altra vita».
Ecco, un’altra vita. Partiamo dall’inizio: quando è arrivato a Bologna?
«In Emilia nel 1970. Prima ero libero docente a Catania, dopo il matrimonio io e mia moglie siamo andati a vivere a Ferrara, dove presi la cattedra che aveva lasciato Leopoldo Elia. Un anno dopo ci siamo trasferiti a Bologna. Per quattro anni sono stato responsabile della commissione giuridica della neonata Regione Emilia-Romagna».
Poi c’è stata la politica.
«Nel 1976 sono diventato parlamentare, con il Pci e il Pds, per cinque legislature, alcune “mini“. L’ultima, per esempio, è durata due anni, dal 1992 al ’94».
Ed è stato ministro...
«...per poco. Io ero stato tra i protagonisti dei referendum elettorali. Dopo il 18 aprile 1993, con la vittoria del maggioritario, si formò il governo Ciampi e io divenni ministro per i Rapporti con il Parlamento. Poi ci siamo dimessi dopo la mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. C’era la sollevazione popolare – ricordate le monetine all’hotel Raphaël? – e Achille Occhetto, leader del Pds, decise che quel Parlamento non poteva restare in piedi e bisognava andare a nuove elezioni. Uscimmo dal governo, ma fu un errore».
Lasciaste il governo per una questione di principio?
«Quella nostra assurda uscita dal governo avvenne per una scelta populista, perché le piazze protestavano. Devo dire che una certa dose di populismo l’avevamo portata anche noi con la pur sacrosanta riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, che portò, tra l’altro, all’elezione diretta dei sindaci. Però forse si era esagerato: io infatti non partecipai al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti».
Tangentopoli è stato forse l’ultimo momento di frattura dirompente in Italia. Poi ci sono stati grandi eventi internazionali. Che cosa hanno lasciato quegli anni?
«C’è la vulgata che i partiti siano crollati in quell’occasione, per colpa del movimento referendario. Io invece ho sempre capovolto questa vulgata: noi potemmo portare avanti quelle iniziative proprio perché i partiti erano già deboli. Il Paese non accettava più che anche per la più modesta delle opere pubbliche si dovesse pagare la tangente...».
Senza entrare nel merito dei partiti, qual è lo stato della democrazia, anche in Europa?

«Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo una crisi della intermediazione, che colpisce dai partiti alla stampa. Adesso prevalgono i social e la stessa tv va verso il basso. I talk show ormai sono costruiti come una sceneggiata, sempre con gli stessi personaggi ai quali vengono affidati determinati ruoli come nella commedia dell’arte».
E il rapporto tra il cittadino e la giustizia?
«Ai cittadini dà fastidio dover aspettare anni per la giustizia civile, invece i gruppi dirigenti sentono di più il problema dell’azione penale».
Adesso siamo al momento in cui si torna a parlare di riforme, forse più che in passato.

«Io ho iniziato a occuparmi di riforme dagli anni Ottanta, ma tutto ciò appartiene, appunto. a un’altra vita. Ora non posso continuare a occuparmene ma questo non significa che la Corte sia estranea ai processi di revisione costituzionale. Alcuni paletti li abbiamo già: la Corte può valutare le riforme della Costituzione se in contrasto con i principi fondamentali. Ma i progetti fin qui presentati non hanno mai toccato questi supremi principi. Altri paletti, desumibili dalle sentenze della Corte, sono legati al sistema elettorale: è legittimo prevedere un premio di maggioranza ma con una soglia ben definita; se si vuole eliminare il voto di preferenza bisogna ricorrere al collegio uninominale o a circoscrizioni piccole; poi c’è il tema delle soglie di sbarramento. Ma il paletto più importante è rappresentato dalle procedure previste all’articolo 138 della Costituzione: la maggioranza dei due terzi per fare le riforme costituzionali e l’eventuale referendum se ciò non avvenisse».
I due terzi rappresentano un consenso ampio...
«Sarebbe meglio, ma è legittima anche la strada del referendum».
Vede un rischio di lesione dell’indipendenza della Corte?
«Un certo costituzionalismo ansiogeno ha iniziato a dire “ora tenteranno di occupare la Consulta“. Ma ciò non è possibile: per eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare servono numeri che l’attuale maggioranza da sola non ha. Sono inevitabili, dunque, le convergenze politiche».
E per quanto riguarda la riforma principale, il premierato?
«Sul punto non rispondo. Posso dire, tuttavia, che il presidente del Consiglio italiano non ha i poteri che hanno altri primi ministri, rafforzati, in alcuni Paesi, dal voto a data certa del Parlamento sui provvedimenti presentati dal governo. E questo, da noi, porta ad alcune anomalie. Per esempio, i decreti legge sono una singolarità italiana ma anche i maxi emendamenti, su cui viene posta la fiducia, che vengono utilizzati da tutti i governi. Avere un potere politico forte non è un male, purché sia legittimato».
A proposito di poteri forti, l’Europa deve farsi Stato?
«Non è facile, dubito che si possa farlo nel giro di qualche anno o decennio, però è un’evoluzione necessaria se si vuole che possa competere con la Cina o con l’India o con gli Stati Uniti. Da costituzionalista, posso dire che nella storia uno Stato si ha quando c’è un’unica moneta, e questa ce l’abbiamo, ma servono anche un’unica politica fiscale, estera e di difesa. In realtà, manca anche una lingua unica, non è banale. Però sull’energia qualcosa è stata fatta».
Che ruolo può avere la Corte in un periodo di crisi della politica e dei corpi intermedi?

«Io direi piuttosto che effetti può avere questa situazione sul ruolo della Corte. Il primo è che noi abbiamo tentato delle strade per coinvolgere il Parlamento, come sul fine vita, senza però riuscire a ottenere risultati. Come sta avvenendo sempre sul fine vita, se non interviene il Parlamento sono costretti a muoversi tribunali e regioni. Se ci sono dei vuoti, qualcuno va a occuparli. La Corte è nata per limitare il potere, ma anche per garantire i diritti. E come dice la stessa Costituzione all’articolo 3, spetta alla politica rimuovere gli ostacoli. Adesso sono però i poteri privati, come le multinazionali o i colossi del web che possiedono i nostri dati, a limitare i diritti. Concetti sacrosanti, questi, ribaditi da ultimo dal presidente Mattarella».
Il tema dei diritti civili è uno di quelli su cui la Consulta è intervenuta maggiormente...

«Un altro capitolo sono le unioni civili e il riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso. Per esempio nel caso della gestazione per altri, che resta una pratica vietata, la Corte si è espressa in maniera inequivocabile: l’interesse del minore è sempre prioritario. Anche in questo caso c’è chi, come alcuni sindaci, riempie i vuoti, ma non sulla base di una legge. Che va fatta».
Senta, non possiamo non chiederle... chi sono le «donne impazienti»?
«Sono sinceramente dispiaciuto per l’equivoco che si è ingenerato e per questo invito tutti ad andare a riascoltare per intero il filo del mio ragionamento. Non mi sognerei mai di pensare che l’impazienza di reclamare un diritto possa in qualche modo avere un’accezione negativa. Al contrario, le donne hanno tutto il diritto di essere impazienti».
E sul caso sollevato dall’ex giudice Nicolò Zanon, il conflitto di attribuzioni sulle intercettazioni dell’onorevole Cosimo Maria Ferri?

«Prendiamo atto che il professor Zanon ha chiarito “di non aver mai parlato di ‘pressioni’ sulla Corte Costituzionale” e si è rammaricato che le sue parole possano aver ingenerato “ricostruzioni che danneggiano l’istituzione”. La Corte ha ricordato che la segretezza dei suoi lavori è posta a garanzia della piena libertà di confronto tra i giudici e dell’autonomia e indipendenza. E ha anche ribadito che tutte le sue sentenze possono essere criticate. Potrei aggiungere che, forse, si può pure discutere, nelle forme dovute, dell’introduzione dell’opinione dissenziente legata alle decisioni della Corte: ma certamente, senza di essa, l’opinione in dissenso non può essere manifestata a posteriori…».


[intervista pubblicata sul Quotidiano Nazionale]

giovedì 28 settembre 2023

Il vangelo secondo Matteo (Messina Denaro)

“C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, ma solo chi lo vuole davvero riesce a volare, e il tuo volo è stato il più sublime in eterno". Chissà se i parenti di Matteo Messina Denaro useranno per lui le stesse alate parole, tratte dal libro biblico dell’Ecclesiaste, che lui, la madre e le sorelle dedicarono nel 2004 a don Ciccio, il patriarca Francesco. Quel passo così aulico e ispirato, addirittura in latino, fu pubblicato come necrologio sui giornali siciliani per l’anniversario della morte di don Ciccio. Secondo gli investigatori, sarebbe stato lo stesso Matteo a scegliere le frasi da dedicare al padre. Nel 2003 era toccato al Vangelo secondo Matteo, coincidenza non casuale, anche perché il passo in questione era "beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli"... Poi negli anni i necrologi si fecero più sobri e rarefatti, senza scomodare le Scritture.

Matteo Messina Denaro è morto lasciando come ultima volontà il rifiuto di "ogni celebrazione religiosa perché fatta da uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato". Ma, come accade con tutti i boss, le esequie religiose sarebbero state negate comunque dal questore di Trapani. E inoltre pende sempre sui mafiosi la scomunica della Chiesa. MMD riconosceva solo la propria autorità e negava quella della Chiesa quanto quella dello Stato. "Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie… Rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia", scriveva in un pizzino dieci anni fa, quando ancora non aveva scoperto la malattia che l’avrebbe portato alla morte.

Il rapporto tra Messina Denaro e la religione è più controverso di quanto possano far credere i suoi giudizi sprezzanti sulla Chiesa cattolica. Nel 1998 il padre Francesco morì, di morte naturale, in campagna, e il cadavere fu fatto ritrovare sotto un ulivo vestito di tutto punto per il funerale, con in tasca due santini, quello di San Francesco e quello della Madonna della Libera di Partanna. Il prete che celebrò il rito al cimitero di Castelvetrano sentenziò che "la vicenda umana del nostro fratello la sa solo Dio, gli uomini non possono giudicarla". Praticamente lo stesso dogma di Matteo Messina Denaro. Al quale la Chiesa e i preti andavano bene solo se complici o perlomeno spettatori silenti. Come in quei giorni di latitanza con il padre in una sacrestia di Calatafimi a godersi la processione del Santissimo Crocifisso. O come quel sacerdote che gli avrebbe fatto da confessore benché già latitante . E comunque MMD dovrebbe essere tumulato sempre a Castelvetrano, nella cappella gentilizia di famiglia su cui veglia all’ingresso una statua di donna angelicata.

Lo spartiacque, per Messina Denaro e per la mafia siciliana, è il 1993. Cioè proprio quando il boss di Castelvetrano iniziò la latitanza. Lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento il "grido del cuore" che suonava già come scomunica: "Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita, io dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!". Lo stesso anno in cui però, il 15 settembre, il martirio di don Pino Puglisi certificò che anche nella Chiesa la mafia vedeva ormai un nemico. E infatti, secondo Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano, le stesse stragi romane del luglio 1993 – San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro – "erano anche una sfida alla Chiesa e alla sua capacità di orientare la cultura antimafia del Paese". Matteo Messina Denaro era uno dei mandanti.


[articolo pubblicato sul Quotidiano Nazionale]

sabato 22 aprile 2023

I traditori dell'antimafia

Franco La Torre non aveva ancora 26 anni quando nel 1982 il padre Pio, allora segretario regionale del Pci in Sicilia e fautore della grande rivoluzione antimafia della confisca dei beni, fu ucciso da Cosa Nostra. Oggi di anni ne ha 66 e da quasi trenta porta avanti una battaglia contro il sistema di potere politico-mafioso. Nel 2021 ha pubblicato L’antimafia tradita , in cui denunciava la deriva di un movimento chiuso in se stesso, autoreferenziale, a volte ipocrita. Non vuole commentare il caso di Daniela Lo Verde, preside della scuola “Giovanni Falcone“ allo Zen di Palermo, icona antimafia arrestata per corruzione ("sono dispiaciuto, ma non parlo di indagini in corso, nessuno è colpevole fino all’ultimo grado di giudizio"), eppure non si sottrae all’analisi delle storture di un’antimafia, appunto, tradita.


Pio La Torre fu assassinato a Palermo il 30 aprile 1982

Pio La Torre fu assassinato a Palermo il 30 aprile 1982


La Torre, che cosa è successo all’antimafia?
“A fronte di una ricetta straordinaria, grazie alla legge che porta il nome di mio padre, oggi abbiamo un’antimafia sociale diffusa nel territorio inimmaginabile quarant’anni fa. Da Udine a Mazara del Vallo è pieno di associazioni, comitati, piccoli gruppi che fanno un lavoro straordinario. La questione è la loro fragilità: sono esperienze molecolari, non hanno la possibilità di confrontarsi e spesso producono fenomeni di autoreferenzialità. Della serie: “noi siamo i più bravi del mondo a fare quello che facciamo“. Un limite che si può superare solo con il confronto”.
Confronto e anche controllo...
“Certo. Se ci fossero più occasioni di dialogo tra le varie realtà antimafia, potrebbero emergere anche le cose che non vanno. Ad esempio, se non mi presento a un incontro, alla fine perdo credibilità e gli altri iniziano a farsi venire dei dubbi. Magari scoprendo che era tutto finto”.
Perché c’è così tanta personalizzazione nell’antimafia?
“Perché è un ottimo strumento. Perché ti promuove. Perché è una buona pubblicità. Perché io sindaco, per dire, posso poi appuntarmi al petto la coccarda di aver sostenuto una buona azione. Perché alcuni avvocati creano le associazioni per costituirsi parte civile, e passano per movimenti antimafia: ma è solo il loro lavoro. Perché aiuta a far carriera. Fino ad arrivare alle conseguenze più tragiche, tipo fare il paladino dell’antimafia e poi risultare mafioso: si usa l’antimafia come copertura, e la mafia l’ha capito da tempo”.
Arriviamo allora a quella famosa e tanto discussa definizione, i “professionisti dell’antimafia“ di Leonardo Sciascia... Si finisce sempre lì?
“Le situazioni controverse, gli errori e le esagerazioni vanno sempre condannati, stigmatizzati, senza però buttare via il bambino con l’acqua sporca, perché non sono tutti imbroglioni. Bisogna partire dal presupposto che c’è un’antimafia tradita. In fondo, è come l’antibiotico: da sola non basta, e va aiutata”.
Come si può aiutarla?
“Facendo parlare tra di loro movimenti e attivisti. Le istanze collettive rendono più forte la voce, anche e soprattutto per farsi sentire dalle istituzioni. Ci si lamenta sempre che l’antimafia è assente dall’agenda politica. Ma non sempre la politica è illuminata o sa ascoltare”.
Bisogna saper farsi sentire.
“Sì, ma per farsi sentire si deve alzare la voce. Cantando in coro, per dirla con una metafora”.
Dove sta andando l’antimafia?
“Va avanti. Noi siamo il Paese dell’antimafia, l’unico al mondo. Non siamo più il Paese delle mafie, ormai ce ne sono anche altrove, magari più potenti delle nostre. Ma al di là di questo, sicuramente l’Italia, grazie a strumenti normativi, istituzioni e una coscienza civile diffusa, è il luogo dell’antimafia”.


[intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale]

venerdì 27 gennaio 2023

I miei giorni a Campobello / I giovani

Nei miei giorni da inviato a Campobello di Mazara e Castelvetrano, solo in un caso ammetto di essermi lasciato andare alla retorica. Quando ho parlato dei - e con i - giovani, anzi giovanissimi, di quei paesi. Il giorno in cui sarebbe stato scoperto il secondo bunker di Matteo Messina Denaro a Campobello, la mattina i ragazzi delle scuole del circondario erano scesi in piazza con cartelli e slogan, cosa che le altre generazioni non avevano granché fatto. Ero in giro tra Campobello e le campagne quando poi mi sono spostato a Castelvetrano proprio per parlare con questi adolescenti che avevano voglia di dire la loro e di essere ascoltati. La manifestazione era già terminata ma ho trovato due gruppi di ragazzi ancora in piazza: i 14-15enni di Campobello, freschi studenti del liceo scientifico a Castelvetrano, e i 16-17enni del classico, provenienti anche da altri paesi della provincia (Partanna, Santa Ninfa, Salaparuta).
Tutti sono contenti dell'arresto del boss. Tutti però vogliono risposte su come sia stata possibile questa latitanza così lunga. Tutti chiedono che la loro voce venga finalmente ascoltata e si inizi ora a parlare di futuro. Tutti sottolineano la frattura generazionale tra i "vecchi" che hanno spesso giustificato il boss, facendone addirittura un eroe, e i giovani che non possono accettare questa presunta "normalità" ("Come si fa? Ha ammazzato anche quel povero bambino", dice Stefano riferendosi a Giuseppe Di Matteo). Ma ci sono anche alcune differenze.
Le cose più forti, che costringono a riflettere, me le hanno dette i campobellesi. Dalila, Alice, Marco, Giada, Gabriele e gli altri, tutti concordi nel dire che quando saranno grandi lasceranno il loro paese ("Ormai è rimasto un paese di vecchi", dice Dalila, vecchi con cui non c'è dialogo o confronto); solo uno azzarda "io resterei", ma al condizionale perché ci vogliono le condizioni giuste. E poi il colpo che smantella decenni di retorica dell'antimafia da festa comandata, istituzionale, di maniera: "Sì, a scuola si parla di mafia; abbiamo parlato di Falcone, Borsellino, il generale dalla Chiesa, ma non di Messina Denaro". Magari il loro è un singolo caso (i ragazzi dell'altro gruppo riferiscono al contrario di iniziative antimafia in cui anche l'ex latitante era parte del discorso), magari è una coincidenza, però quella frase è stata per me una deflagrazione. Anche perché sono gli stessi ragazzi a spiegare che nel loro paese il padrino ha avuto decenni di coperture dalle generazioni che hanno approfittato, pure indirettamente, del suo potere criminale. L'omertà è sempre un fatto di interesse, non di disinteresse. Poi, più tardi nella stessa giornata, quei giovanissimi di Campobello li avrei ritrovati davanti alla stradina del bunker, via Maggiore Toselli, incuriositi e ancora con tanta voglia di sapere.
Dai ragazzi del classico ho percepito invece un briciolo di ottimismo in più. Sono stanchi delle etichette di "terra di mafia", addirittura se lo sono sentiti dire da un liceo campano con cui hanno fatto uno scambio ("Chissà che cosa diranno quando verranno a marzo!", commenta una delle ragazze). Si chiamano Angela, Egle, Maria Sole, Stefano, Nadia, Imma. Vogliono risposte, sanno che Messina Denaro ha prosperato grazie al suo "ricatto occupazionale". Nel loro futuro ci sono ancora i loro paesi e la loro provincia, quantomeno la loro Sicilia. "Vogliamo restare e fare qualcosa per la nostra terra", dicono praticamente in coro. Angela cita il suo "mito Falcone" - si illumina in volto - e la mafia come fatto umano che prima o poi dovrà finire ("Si spera non insieme all'essere umano", aggiunge). Lei ha le idee chiare: "Voglio fare il magistrato. Antimafia. Devo restare qui".

giovedì 26 gennaio 2023

I miei giorni a Campobello / Le voci

A Campobello di Mazara non è stato facile raccogliere voci e reazioni dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro, soprattutto nei primi momenti a caldo. Al di là dei silenzi, delle connivenze, delle omertà e della voglia di farsi serenamente i fatti propri, l'essere catapultati improvvisamente nel circo mediatico ha frenato molto la gente del paese. Più loquaci i giovani, giovanissimi, ma meritano un capitolo a parte. La curiosità c'era, sì, ma non tanto da esporsi. Persino una faccia come la mia, così siciliana da essere a-sud-di-Tunisi, risultava estranea, forestiera. L'ho visto in un bar della via principale, dove il mio ingresso ha subito destato quasi fastidio, quantomeno imbarazzo, a tal punto che la giovane barista mi ha servito velocemente e poi è uscita fuori con altri avventori a proseguire le chiacchiere interrotte dal mio arrivo. Aveva invece più voglia di parlare, e mi ha detto cose molto interessanti, l'edicolante di via Umberto, a pochi metri dallo studio del medico Tumbarello che firmava ricette e certificati al boss. Poco più che quarantenne, l'edicolante mi ha mostrato la pila di giornali invenduti sul bancone e quella ancora imballata sul retro: "Ho venduto solo una trentina di copie in una mattinata, quando in questi casi se ne vendono almeno 300. La gente non ha voluto saperne". Una sorta di silenzio autoimposto. "Un signore non voleva neanche farsi vedere con il giornale in mano". E poi un pacato atto  d'accusa collettivo: "Assurdo che ora dicano tutti che non ne sapevano nulla. Io ho visto le immagini dell'arresto e secondo me quel signore con il cappotto di montone in passato è entrato anche qui. Non sapevo chi fosse, ma quanti vestono in quel modo?". Nota a margine: anche quei pochi che hanno voluto parlare quasi mai hanno pronunciato il nome di Messina Denaro, ma "lui", "quel signore", detto anche con disprezzo, chiaro. Il giorno dopo, qualche ora prima della scoperta del secondo bunker, ho fatto due chiacchiere con il benzinaio che si trova proprio di fronte alla famigerata ex via Cb 31, presidiata da tv e carabinieri. "Una giostra, un carosello", e si è messo persino a canticchiare il tema dei clown di Fellini, quello di Nino Rota. Non intendeva sminuire l'importanza dell'evento, ma sottolineare con sprezzante disincanto, molto siciliano, le esagerazioni di quelle ore, lo schieramento di forze (dell'ordine e dell'informazione) e forse anche una certa spettacolarizzazione. Fatalismo e pragmatismo che avevo colto il primo giorno anche a Palermo, a dire il vero. Il resto invece è stato un susseguirsi di smorfie, silenzi, pause, quel linguaggio non verbale siciliano che per fortuna un po' conosco. Per questo ho interpretato molti non-detti, eloquenti tanto quanto, se non più, di balbettii imbarazzati davanti alle telecamere. 

mercoledì 25 gennaio 2023

I miei giorni a Campobello / Il paese

Una delle prime immagini che mi ha accolto a Campobello di Mazara è la coppia di ragazzini su uno scooter, senza casco, che trascinavano un cavallino al trotto con una corda.
Non sono andato lì a fare reportage etnografici né verbose analisi sociologiche, il mio compito era solo cercare di trasmettere ai lettori l'atmosfera che si respirava nel paese in cui Matteo Messina Denaro ha trovato rifugio e complicità per tanti anni. Mi sono affidato a quel che ho visto, sentito, percepito. Anche i silenzi e i rumori mi sono serviti per farmi un'idea. Cercando di non avere preconcetti. Infatti non voglio giudicare nessuno. Quindi sono le immagini del paese a parlare. Nei prossimi post darò spazio alle voci.
Al mio ritorno mi sono poi imbattuto, davvero casualmente, in una novella di Pirandello ("Il libretto rosso", 1911), in particolare in un passo che mi fa riflettere: "Molta indulgenza bisogna avere per gli abitanti di [...], perché non è molto facile essere onesti quando si sta male". Tra parentesi c'era il nome del paese fittizio di Nisia, ma purtroppo potrebbe vale per molti altri.
Ci sono istantanee che ancora adesso dopo una settimana mi restano impresse e credo siano state significative nel tracciare un identikit del territorio. 
  • La toponomastica labirintica. Una volta le strade si chiamavano via Cb 31 (Cb=Campobello; ormai lo sanno tutti che è l'attuale vicolo San Vito del primo covo del boss trovato il giorno dopo l'arresto), via M (attualmente è via Marx, la parallela a Cb 31), via 10, via 5, via Y eccetera. Quelle con i numeri e le lettere sono state ribattezzate anche in onore di eroi antimafia: stradine di periferia circondate da abusivismo e un po' di abbandono. Come abbandonate sono le vie dedicate ai grandi registi italiani (De Sica, Fellini, Germi). I vigili urbani mi hanno spiegato che le nuove intitolazioni risalgono all'anno scorso. L'antimafia è in periferia, compreso il murale per Peppino Impastato su una centralina elettrica o il piazzale del cimitero intitolato a don Pino Puglisi. 
  • Il cartello vecchio. All'ingresso del paese c'è il cartello "Campobello di Mazara. Provincia di Trapani. Ab. 13000". Non mi era capitato spesso di leggere su un cartello il numero di abitanti, quindi mi ha incuriosito. Ho controllato: Campobello ha circa 11mila abitanti, i 13mila li ha sfiorati nel censimento del 1991. So che possono sembrare stupidaggini, ma sinceramente mi ha impressionato che quel cartello di benvenuto sia vecchio almeno di trent'anni... 
  • Il centro vaccinale. A uno degli ingressi del paese c'è il centro vaccinale nel quale anche Messina Denaro si è fatto somministrare tre dosi di anti Covid. Il centro ha sede in un bene confiscato alla mafia, ufficialmente in territorio comunale di Castelvetrano ma proprio a ridosso dell'entrata di Campobello. Il bene era la concessionaria auto Mo.Car, confiscata all'imprenditore Andrea Moceri. Mi ha colpito vedere ancora l'insegna della concessionaria sull'edificio. 
  • La cultura abbandonata. Una delle cose interessanti che mi hanno detto gli adolescenti del posto è che l'unico modo per affrancarsi è la cultura. Dico interessante perché se ci si limita per esempio a leggere la voce "Campobello di Mazara" su Wikipedia, alla sezione "Storia" si parla solo dell'arresto di Messina Denaro. Eppure nel territorio di Campobello ci sono le Cave di Cusa, il Baglio Florio, l'area archeologica di Erbe Bianche, ci sono questi luoghi eppure visitarli è tutt'altro che facile: le Cave sono quelle dove si estraeva la pietra di calcarenite per i templi di Selinunte, ma il cancello è chiuso e si passa abusivamente da un varco nella recinzione; il Baglio ospita il Museo della Civiltà contadina, ma anche lì c'è il lucchetto; Erbe Bianche, sito dell'età del Bronzo, è abbandonato e incolto. Nascondere la Storia è un peccato. A volte anche un reato. 

martedì 24 gennaio 2023

I miei giorni a Campobello / Un diario

Esattamente una settimana fa ero a Campobello di Mazara. Ero partito il giorno prima, lunedì 16, inviato dal mio giornale a seguire la notizia dell'anno, del decennio, del secolo, cioè l'arresto di Matteo Messina Denaro. Con una settimana di ritardo, vorrei provare a riassumere le sensazioni di quei tre giorni. Non sono andato pretendendo di avere risposte o chissà quali segreti da rivelare. Il mio compito è stato piuttosto di registrare le reazioni, il clima che si respirava tra Palermo e il territorio del boss. E qui, su questo blog dal quale purtroppo latito (ops) da tanto, proverò a lasciare tracce di un diario a mente fredda. Parlerò di quello che ho visto o creduto di vedere a Campobello, delle sensazioni che mi hanno lasciato, anche in prospettiva, i giovani di quei paesi, dei messaggi che mi ha trasmesso il paesaggio, non solo quello urbano, di che cosa rappresenta l'arresto di Messina Denaro. Niente considerazioni tecniche, nessun discorso complottistico, solo le riflessioni di un ex bambino che ricorda ancora le stragi del 1992 e con la fine della latitanza di Messina Denaro sente di avere un briciolo di serenità in più. Senza illusioni, ma anche senza cinismo.